Chiesa: comunità di Speranza. Quale antropologia educativa?

L’icona biblica dei discepoli di Emmaus assume un’importanza antropologica che riflette il
profondo valore dell’ ”umano” e della sua natura educativa alla quale siamo chiamati, come
comunità cristiane, a testimoniare la Speranza, certezza che si radica nella Verità rivelata
che si incarna nella storia dell’uomo in Gesù che va incontro all’uomo per i condividere con
lui la gioia della Speranza. Speranza che non è l’universo del possibile, ma l’orizzonte
temporale, e non, della certezza che nasce dalla vittoria di Cristo sulla morte.

Testimonianza della Speranza
«Ecco, allora, il brano di Luca con i suoi due discepoli, delusi e disorientati, che fuggono da
Gerusalemme all’indomani della morte di Gesù. Un brano eloquente capace di condurci a una
riflessione ecclesiale profonda. Essere “profezia di speranza” è imparare a credere nella
inesauribile forza della Pasqua, e che lo Spirito continua a tessere nella trama fragile dei nostri
giorni, fili di vita e di luce. È questo il dono che siamo chiamati a custodire e a testimoniare, certi
che ogni piccolo gesto di bene, compiuto nel nome di Cristo, ha il potere di cambiare il mondo».

E allora la prima azione educativa per forgiare, formare, plasmare l’ “umano” è la
testimonianza della Speranza. L’educazione implica in primis lo stile della testimonianza,
alla quale siamo chiamati per rendere credibile la Speranza in una relazione profonda,
sincera, matura con Cristo. In questa prospettiva gli studi pedagogici indicano la
testimonianza come espressione dell’autorevolezza educativa che proviene dalla
esperienza profonda che le comunità cristiane sono chiamate a vivere mediante la
formazione e l’educazione delle generazioni. Non si nasce “profeti di speranza”, ma si
diventa con il discernimento, l’accompagnamento, l’orientamento, la correzione fraterna e
paterna. L’atto educativo esprime l’idea dinamica di una consegna, consegnare qualcosa a
qualcuno significa nell’etimologia latina “trāděre” (trasmettere). Lasciare in eredità un
patrimonio, che nel caso della fede nella traditio ecclesiae è il depositum fidei, il patrimonio
di valori cristiani che esprime il senso profondo della Speranza, ossia del Kerygma. In
questa prospettiva, il testimone di Speranza non ambisce alla perfezione terrena, non
ostenta virtù umane eroiche, ma si sforza di essere e diventare espressione visibile e
credibile di quella che Antonio Bellingreri chiama “vicarialità educante”. Vicario è colui che
in virtù della sua auctoritas educativa, giunto alla pienezza dell’ umano educa, agisce ed
insegna in nome della sua maturità (di fede) e che si alimenta sempre dal confronto con gli
altri in un autentico stile comunitario, diremmo sinodale, ispirandosi uno stile di ecclesiologia
di comunione. L’umano, quindi, inizia ad assumere la forma più propria perché accoglie la
credibilità di chi esercita il ruolo educativo e formativo in quanto autentico testimone della
Speranza, che è Cristo vissuto, morto e risorto. In questo senso le nuove generazioni hanno
bisogno di testimoni credibili che trasformino le incertezze, i dubbi, le paure, le angosce
esistenziali, le solitudini individuali, in gioia, certezza, passione, entusiasmo. In una
Speranza che racconta la bellezza della vita anche quando essa è messa a dura prova dalle
circostanze, dalle situazioni e dagli eventi. Ricordiamo, inoltre, che l’autentica educazione e
formazione non implica la trasmissione sé stessi; ma noi siamo chiamati a testimoniare la
Speranza che ci trascende e si incarna nelle espressioni vitali ed esistenziali di ognuno.
Questa prospettiva testimoniale nell’azione educativa dischiude l’orizzonte di senso della
profonda e matura esperienza di fede cristiana che diventa consapevole e autentica
vocazione alla vita in tutte le sue scelte responsabili e irreversibili che orientano alla opzione
fondamentale del sé, affinché aiutino le future generazioni alla sfida e alla bellezza delle
scelte ultime, a quello che Benedetto XVI chiamava “l’opzione fondamentale del sé”. Questo
è il fine ultimo della testimonianza della Speranza e dell’autentica educazione.

Relazionalità/Comunità – Un’altra dimensione antropologica dell’educazione che
contribuisce ad esplorare e formare l’umano, in cui la testimonianza diventa coabitazione di
esperienze, è la relazionalità che si esprime nelle forme comunitarie e nella comunità come
luogo di espressione e di trasmissione della Speranza. Sia chiaro che la comunità non è
una somma di individui, ma un’entità nuova, una realtà che li trascende mantenendoli nella
loro specificità e creando relazioni di apertura in cui ognuno si fa ‘prossimo’ dell’altro, in cui
le relazioni empatiche costituiscono il tessuto di un’esperienza umana che affranca dagli
individualismi, dai protagonismi (anche ecclesiali) e determina relazioni, avrebbe detto Edith
Stein, interpsichiche e intrapsichiche, relazioni in cui troviamo la bellezza, e a volte anche il
conforto, di essere accolti, curati, ascoltati, accettati. In cui le generazioni possano
realmente vivere esperienze comunitarie in cui imparare ad ascoltare, dialogare,
collaborare, convivere e orientandosi verso un fine comune.

«Gesù, prima della sua morte si rivolge ai suoi con uno struggente invito, esortandoli più volte:
«Rimanete nel mio amore»1. È un invito rivolto a ciascuno e allo stesso tempo a un “noi” ecclesiale,
ai suoi, ai dodici. È qui la sorgente a cui guardare per ritrovare noi stessi, l’altro e il creato.
Realizzare l’esperienza comunitaria, ridare “con-sistenza” al vivere attraverso relazioni autentiche
abitate dalla fiducia, ha un punto di partenza imprescindibile: l’incontro personale con Cristo. Se
oggi c’è un’urgenza credo sia quella di rinascere come comunità. Il futuro necessita di amore,
condivisione e non di paura; di rispetto, solidarietà e non di individualismo e sopraffazione.
“L’oltre” a cui siamo chiamati passa attraverso la sana relazione con l’altro, bene imprescindibile
e non sterile cornice del nostro apparire, a cui spesso lo riduciamo».

Esodo – In questa prospettiva Emmaus ci invita ad uscire dalle nostre paure, dal nostro
disorientamento per riconoscere nel gesto eucaristico la storia di un amore che li ha
preceduti e che li seguirà in eterno. I discepoli di Emmaus ci insegnano che l’autentica sfida
educativa è quella, come operatori pastorali, educatori, formatori, di uscire dalle nostre
certezze, dalle nostre comodità, dai nostri giudizi e pregiudizi per aiutare le nuove
generazioni ad intraprendere l’autentico esodo da se stessi. Un esodo che implica
l’affascinante cammino, a volte difficile, pieno di sfide, della vocazione educativa alla quale
ognuno di noi è chiamato e alla quale la comunità cristiana è chiamata a dare il proprio
contributo. Un’educazione che riscopre, nella dimensione dell’ “umano”, la presenza
dell’altro non come posizione dativa nel mondo, ma come condizione di apertura al mondo
e all’altro il cui “volto” consente di accedere ad una dimensione profonda della natura
relazionale della Speranza cristiana. In questa presenza dell’Altro la mia vita si trasforma in
eucaristia vivente, in pane spezzato per gli altri, un’espressione di servizio, di oblazione, di
gratuità che è il livello più alto, profondo, autentico del processo di maturazione psico-sociale
e antropologica dell’essere umano: la “gratuità esplosiva” (Mario Pollo).
In questo senso le comunità cristiane, ed in particolar modo parrocchiali, possono diventare,
nella difficile arte dello stile sinodale: – comunità iniziatiche – comunità decentrate – comunità inclusive.
1Cf. Gv 15.
La testimonianza della Speranza, lo stile comunitario e l’esodalità possono contribuire a
tracciare il senso dell’ “umano” cristiano in una prospettiva antropologico – educativa.

Parrocchia “Bonus Pastor” – Bari
3 ottobre 2025
Prof. Fabio Mancini